All’inizio di quest’anno scolastico l’amatissimo prof. Cattaneo, colui che con le sue due o tre battute riusciva sempre a strappare un sorriso durante le sue lezioni di Fisica, è andato in pensione e per questo motivo noi redattori l’abbiamo voluto intervistare.
Già da qualche anno sarebbe potuto andare in pensione, ma come mai ha deciso di farlo proprio quest’anno?
«In teoria avrei potuto fare ancora un anno, ma la situazione degli ultimi due anni, a causa del Covid, è stata pesante, per cui ho preferito prendermi del tempo per rilassarmi».
Quale emozione ha provato quando finalmente ha deciso di lasciare il lavoro?
«Non ho provato una vera e propria emozione, perché sul momento non te ne rendi conto, ma più vai avanti col tempo, più invece capisci che non hai i soliti ritmi, le solite scadenze. Ti rendi conto di avere quella sensazione di tranquillità che è impagabile. Pertanto non ho avuto un’emozione specifica, perché, a causa del Covid, non ho potuto festeggiare con i colleghi, come invece succedeva in passato. Addirittura all’ultimo festeggiamento che abbiamo fatto, c’era ancora il dirigente scolastico dott.ssa Pigorini che si era messa a cantare, a suonare la chitarra e in questi casi le emozioni si percepivano. Ma nel mio caso è stato un saluto “freddo”, avvenuto online, all’interno del Collegio Docenti. Se, però, più avanti la situazione lo permetterà, si vedrà di recuperare con qualche festa».
Non le manca andare a scuola e vedere i ragazzi “starnazzare” per i corridoi, piangere per un brutto voto, ma anche emozionarsi per un voto positivo?
«Assolutamente sì. Il rapporto con i ragazzi è una delle cose più belle che ti possa dare la scuola, perché, al di là della materia, delle spiegazioni, delle conoscenze che si devono trasmettere, si instaurano dei bellissimi rapporti, si chiacchiera del più e del meno, si fa una battuta, si discute e tutto ciò è impagabile. Certamente ci sono anche discussioni sui voti e a volte si alzano anche un po’ i toni delle voci e la chiacchiera si fa un po’ più intensa, però fa comunque parte delle relazioni tra le persone».
E i suoi ex colleghi le mancano?
«I colleghi sono l’altra faccia della medaglia, fanno sempre parte del rapporto che si crea tra le persone. Oltre allo stato professionale, abbiamo fatto delle ottime cose. Con i miei colleghi mi inventavo sempre qualche battutina, perciò non erano mai tranquilli. Insomma c’era sempre un ottimo rapporto».
Cosa le manca di più della scuola e cosa di meno?
«Di meno mi manca tutta la burocrazia. Non mi manca la pesantezza della scuola, tutti i suoi meccanismi, le relazioni, i verbali. Mentre quello che più mi manca sono i rapporti con i ragazzi, con i colleghi, anche col personale ATA, perché alla fine avevo un rapporto un po’ con tutti, la battutina ce l’avevo sempre pronta per chiunque».
Com’è stato passare il suo ultimo anno di lavoro a distanza, senza né poter vedere i ragazzi dal vivo né interagire con loro come sempre ha fatto?
«Bruttissimo. Anche se con la DAD si riusciva a fare qualcosa, era comunque un lavorare completamente diverso: manca proprio il rapporto con le persone, perché interagire con gli alunni è una delle cose fondamentali, e a distanza è tutta un’altra cosa, senza contare i vari problemi di connessione. È un rapporto molto distaccato».
Secondo lei questo evento ha segnato e sta tuttora segnando la vita dei ragazzi? Se sì, in che modo?
«Assolutamente sì. Più che altro cambia anche il modo di lavorare: me ne accorgevo, perché, quando è stato possibile vederli in presenza, mancava proprio quell’allenamento al lavoro, allo studio. Poi una persona stando a casa cambia completamente i suoi ritmi, per cui recuperare un modo normale di fare scuola non sarà facile, ci vorrà un po’ di tempo. Quindi ci ha sconvolto proprio tutto. Me lo ricordo anche dagli scrutini che facevamo, dove si discuteva della situazione della classe, cercando sempre di ricordare com’è che la vivevano gli studenti, anche noi ovviamente, e avevi questo clima di paura, di tensione, perché non era una situazione facile, in quanto si stava affrontando una cosa nuova per tutti. Io non avevo mai vissuto una pandemia, me lo raccontava mia nonna, la quale mi parlava della Spagnola, che lei aveva vissuto all’inizio del secolo scorso: per cui io con un po’ più di anzianità ho avuto più capacità di gestire questo cambiamento da solo ed è stato difficile per me, perciò capisco quanto sia stato difficile per i ragazzi».
Com’è stata la sua esperienza lavorativa al Casale? Se dovesse rivivere un’altra vita la rifarebbe?
«A essere onesto se avessi potuto fare un saluto normale con i miei colleghi, avrei detto che per me è stata una vita con il Casale, non per il Casale, perché mi sembra un po’ troppo. Ho iniziato da studente quando avevo tredici anni, quindi ho fatto tutto il mio percorso da scolaro, poi sono andato all’università e sono rientrato nel 1985-86 come insegnante. Dunque quando cominci a tredici anni e finisci a settanta, è veramente una vita con il Casale.»
Per cui per me non è una scuola: ci ho lasciato di tutto lì dentro, il cuore sicuramente. E se dovessi rivivere un’altra vita, la rifarei assolutamente, perché mi sono sempre trovato bene al Casale
Da questa sua “avventura” cosa ha imparato?
«Io ho imparato tantissimo, perché lavorare con le persone è un confronto continuo. Il confrontarsi con le persone è sempre un’esperienza in più che fai».
Se il Casale dovesse contattarla per fare qualche progetto insieme, accetterebbe?
«A dire la verità spesso mi chiamano per un pranzo o una cena e io non so mai se avrò il tempo di andarci, perché devo recuperare gli impegni che ho lasciato in arretrato a cui si aggiunge la storia del nonno, in quanto spesso ho le mie nipotine per il fine settimana. Per cui la disponibilità ce l’ho, ma materialmente non so cosa riuscirei a fare».
La consiglia come scuola? Perché?
«Assolutamente sì. Quando dico che al Casale ho lavorato bene e mi è piaciuto è una cosa che cerco sempre di estendere. Ho fatto anche la propaganda per un certo periodo: prima degli stage c’era la possibilità di andare nelle scuole e con la prof.ssa Giarin andavo alle medie e svolgevo questa attività, che pertanto facevo con molto entusiasmo. Negli ultimi anni gli stage per i ragazzi delle scuole medie li facevamo a scuola, dove organizzavamo degli incontri nel laboratorio di fisica, cercando di dire ai ragazzi che questa è una scuola in cui si sta veramente bene. Io aggiungevo anche una “minaccia”, dicendo: “Voi scegliete pure qualsiasi indirizzo (MODA, CAT, TUR, AFM), tanto mi troverete sempre, perché i corsi ce li ho tutti e quindi sappiate già che mi dovrete sopportare”. Questa era una “minaccia” che, però, ricordavano simpaticamente quando poi me li trovavo in prima, ricordandosi anche del ponte di Leonardo che facevo costruire loro».
Qual è stato l’aneddoto più divertente che ha vissuto in questa scuola?
«Ho vissuto tanti e piccoli aneddoti belli e onestamente non ho un evento così entusiasmante e particolare da raccontare, perché il bello è proprio il quotidiano».
Ora che si trova a casa in pensione e che quindi ha più tempo libero, ha qualche hobby a cui più si dedica?
«Di hobby ne ho diversi. Ho per esempio una montagna di riviste che vorrei controllare, però sono tutti più che altri lavoretti di casa che ho lasciato in arretrato. Anche se un vero e proprio hobby a cui più mi dedico è il giardinaggio. Mi piace anche andare in bicicletta o fare passeggiate a piedi».
Le piaceva di più venire a scuola o preferisce stare a casa e avere più tempo per sé e per i suoi familiari?
«Sarò sincero: preferisco adesso. Perché mi sento molto più tranquillo: hai quella sensazione di rilassamento, mentre a scuola devi essere sempre preparato, concentrato e sempre pronto a tutto. Non che a casa non sei pensieroso, però sicuramente sei meno stressato. Poi eventualmente mi farebbe anche piacere andare a trovare i miei colleghi, ma ora con questa situazione sono abbastanza limitato».
Giulia Beretta, 4A SIA