L‘eutanasia è un argomento molto delicato: sempre più persone giungono a prendere questa decisione, che personalmente non condivido e vi spiego perché.
Prima di tutto, vorrei iniziare con l’etimologia di questo termine: in greco la parola εὐθανασία è composta da εὔ– (“buona, bene”) e θάνατος (“morte”) e significa quindi letteralmente buona morte. Nella definizione della parola che ne dà l’Enciclopedia Treccani, si fa esplicito riferimento all’uccisione di un soggetto malato consenziente, cioè in grado di esprimere la propria volontà di morire, in due possibili modalità: il suicidio assistito, cioè attraverso l’autosomministrazione di farmaci letali prescritti da un medico, o l’eutanasia volontaria in senso stretto, messa in atto direttamente dal medico a cui ci si rivolge.
Il tema dell’eutanasia dunque si intreccia strettamente con quello del diritto alla vita, che può essere chiamato in causa anche nell’ambito dell’aborto.
Lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick nel 1974 pubblicò il racconto The Pre-Person (“Le Pre-persone”), scritto poco dopo la sentenza della Corte suprema Roe vs. Wade, che legalizzò l’aborto negli Stati Uniti: la finalità di Dick era di sottolineare le difficoltà che si riscontrano nel cercare di definire quando nasce la personalità in una persona, cioè la parte morale, dunque i suoi sentimenti, le sue emozioni, i suoi pensieri, una cosa che non può essere separata dalla componente biologica, ovvero il corpo.
Nel mondo distopico immaginato in “The Pre-Person”, per ovviare al problema del sovrappopolamento, un bambino può essere “abortito” fino all’età di 12 anni, età in cui può finalmente essere considerato un essere umano, perché capace di comprendere l’algebra: prima di questa soglia anagrafica il bambino viene considerato dunque una pre-persona e può essere eliminato per qualsiasi motivo i genitori non lo vogliano più con sé. Sono infatti i genitori stessi che chiamano il centro per l’aborto che con un furgone, stile accalappiacani, preleva il bambino e lo conduce alla County Facility, struttura in cui, se non adottato entro 30 giorni, il bambino viene ucciso con una forma di “eutanasia”.
Ma di furgoni che ti catturano e che ti portano a morire non si parla soltanto nell’universo immaginario di Dick: infatti Katie Hopkins, commentatrice britannica, nel 2015, in una intervista da lei rilasciata, ha sostenuto che è ridicolo vivere in un Paese in cui si può praticare l’eutanasia sui cani e non sulle persone e, dopo avere dichiarato che ci sono troppi anziani, ha indicato i furgoni dell’eutanasia (“euthanasia vans”) come soluzione al problema.
Tuttavia credo che la vita non si fermi a un corpo che non può più avere il controllo,non siamo solo il nostro corpo, ma abbiamo una capacità di ragionare e di provare sentimenti: se avvengono incidenti che possono ledere il nostro corpo non significa che ci privino della possibilità di pensare, di essere persone. Non è che se non riesci a fare determinate cose, non sei più un uomo o una donna.
L’eutanasia è strettamente legata al pensiero darwiniano. Nancy Pearcey nel suo libro “Ama il tuo corpo. Le risposte cristiane al dibattito globale sulla sessualità e la vita umana” ci dice che “la storia ripete continuamente l’antico mantra secondo cui gli esseri umani non hanno uno scopo ulteriore che vada al di là della pura sopravvivenza biologica. Chi è sopravvissuto ma ha comunque esaurito la propria utilità biologica, dovrebbe essere tranquillamente disposto a morire” e cita il giornalista John Zmirak che ci spiega che secondo le teorie materialistiche gli esseri umani sono “soltanto potenziali luoghi di sofferenza o di piacere. Se non possiamo garantire il loro piacere, almeno possiamo porre fine alla loro sofferenza”.
Perciò il darwinismo ci insegna che l’uomo non è altro che un pezzo di materia e, visto che i principi morali non possono essere visti, ascoltati, pesati o misurati, la moralità viene sostenuta come qualcosa di non reale e che non permette di essere considerati come soggetti degni di vivere da parte della società.
Ma ci sono uomini che, nonostante le difficoltà del corpo, hanno scelto la vita. Parlo per esempio di Jordi Sabaté Pons, trentasettenne spagnolo, colpito dalla sclerosi laterale amiotrofica circa 8 anni fa: come da lui stesso affermato, non può muoversi, parlare, mangiare e neanche bere e respira con difficoltà, ma nonostante tutto, ribadisce che ama la vita, ammettendo che è difficile perchè lo Stato non si prende cura di te, ma ti offre la morte gratuitamente, mentre la vita per lui costa circa 6000€ a mese.
Come in Spagna, anche in Italia, la vita per chi è affetto da patologie rare, è difficile e soprattutto costosa da mantenere. Lo Stato, infatti, non dà abbastanza aiuti per queste persone: l’eutanasia quindi potrebbe essere solo la scelta di chi, per mancanza di sostegni, sceglie la via più economica.
Il tema è di certo molto complesso, ben al di là dello spazio che si può riservare ad esso in un breve articolo, ma spero che inviti ad una riflessione seria su cosa sia davvero l’eutanasia e sui motivi che spingono le persone a praticarla.
Elena Mazza, 3A AFM